© Ambroise Héritier
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Dossier - Iniziativa popolare «Diritto svizzero anziché giudici stranieri» «La Svizzera deve proteggere la CEDU!»

Amnesty International - agosto 2018
Il 25 novembre 2018 gli elettori svizzeri si esprimeranno sull'iniziativa "per l'autodeterminazione" promossa dall'UDC. La posta in gioco è molto alta per ogni cittadino svizzero, per questo Amnesty International è scesa in campo invitando a votare un chiaro "NO", in nome dei diritti umani. Questo articolo è inserito in un approfondimento sul tema pubblicato nella rivista Amnesty del mese di agosto 2018 (testi originali in tedesco o francese).

Quali progressi la Convenzione Europea dei Diritti Umani (CEDU) ha permesso di realizzare? A quali attacchi è sopravvissuta la Corte di Strasburgo? Panoramica sullo stato di uno dei principali strumenti europei in materia di diritti umani, in compagnia di Sébastien Ramu, direttore aggiunto del Dipartimento Diritto e Politica (Law & Policy) di Amnesty International.

intervista di Carole Scheidegger

 

Amnesty: Stati quali la Russia, la Turchia o l’Ungheria non rispettano i diritti umani. Le violazioni sono in alcuni casi molto gravi. Se la Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU) non permette di impedire le violazioni, a cosa serve?

Sébastien Ramu: La Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo si applica a oltre 800milioni di persone nei quarantasette Stati membri del Consiglio d’Europa. Essa si inserisce in un sistema collettivo di protezione dei diritti umani in Europa. Ogni Stato membro ha una parte di responsabilità nella sua riuscita o nel suo fallimento. Il valore aggiunto di questa Convenzione non è in alcun modo messo in dubbio per il semplice fatto che delle violazioni dei diritti umani avvengono in questo o quel paese. Al contrario: proprio negli Stati in cui la situazione dei diritti umani è particolarmente problematica, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) rappresenta spesso per le vittime l’ultima speranza di ottenere giustizia. Senza la Convenzione e la Corte, la situazione sarebbe peggiore. Numerose violazioni dei diritti umani non sarebbero riconosciute come tali. Ci sono responsabili politici che, purtroppo, strumentalizzano alcune decisioni dei giudici per creare delle controversie e screditare la Convenzione e la Corte. Così facendo si guardano bene dal riconoscere qualsiasi evoluzione positiva che queste hanno reso possibile.

 

Per esempio?

In un caso che riguarda la Turchia, i giudici si sono espressi in favore del diritto di disporre di un avvocato sin dall’inizio della detenzione. Questo ha avuto un impatto significativo nell’ambito della giustizia penale degli Stati membri della Convenzione, dimostrando inoltre uno degli aspetti positivi del sistema collettivo di protezione dei diritti umani che ha creato. In un altro caso in Gran Bretagna o in Francia, la Corte ha riconosciuto l’illegalità delle banche dati costituite dalla polizia con le impronte digitali o i campioni di DNA di persone innocenti. In Italia una sentenza di principio ha portato le autorità ad avviare delle riforme il cui obiettivo è rimediare alle cattive condizioni di detenzione e alla sovrapopolazione carceraria. Si tratta solo di alcuni esempi di numerosi cambiamenti positivi.

Cosa accadrebbe se la Svizzera si ritirasse dalla CEDU?

Uno dei rischi è l’effetto domino che porterebbero all’indebolimento, se non alla sparizione, di un sistema regionale pazientemente creato nel corso di decenni per proteggere i diritti umani. In effetti, altri paesi coglierebbero probabilmente l’occasione del ritiro di un paese il cui bilancio in materia di diritti umani è generalmente percepito come positivo per tentare di sabotare il sistema e svuotarlo della sua sostanza, o semplicemente abbandonarlo. Mentre la pressione sui diritti umani si fa sempre più forte in numerosi paesi, non è certo il momento di indebolire la CEDU, al contrario. Inoltre la Svizzera, che si è profilata come “campione dei diritti umani”, vedrebbe gravemente compromessa la propria credibilità. Sarebbe inoltre costretta a lasciare il Consiglio d’Europa, un’istituzione regionale determinante in materia di diritti umani.

Altri paesi mettono in dubbio la CEDU?

Degli attacchi provengono dal Regno Unito, in particolare dopo che i giudici di Strasburgo hanno dichiarato illegale il divieto generale per i prigionieri di votare. Con Brexit questo tema è finito nelle retrovie. Ma potrebbe tornare d’attualità. Allo stesso modo, la Russia ha adottato – nel 2015 – una legge che autorizza la sua Corte suprema a decidere se una sentenza della Corte EDU debba o meno venir applicata.

Secondo le voci critiche, la Corte EDU ha ampliato la propria giurisdizione e le sue sentenze andrebbero ben oltre le sue intenzioni originarie. Cosa ne pensa?

La Corte dà un’interpretazione della CEDU che è in sintonia con il mondo attuale, e questo è perfettamente normale. La Convenzione data degli anni cinquanta, e la società è profondamente mutata da allora. I giudici devono tenere questo in considerazione.

C’è chi sostiene che i giudici di Strasburgo non abbiano una legittimità democratica, e che siano “estranei” alle realtà dei paesi: i loro interventi rappresenterebbero quindi un’ingerenza negli affari di uno Stato sovrano.

Occorre ricordare in primo luogo che i giudici sono eletti dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa, che a sua volta è costituita da parlamentari degli Stati membri. Ognuno degli Stati nomina un giudice chiamato a statuire in tutti i casi che riguardano il suo paese. Quando si parla di una presunta ingerenza della Corte, bisogna rendersi conto che i casi in cui la Svizzera è stata richiamata all’ordine sono estremamente rari: nel 2017 la Corte ha trattato 273 casi che riguardano la Svizzera. Tra questi 263 sono stati respinti per un vizio di forma. Sui 10 restanti, in cui la Corte si è pronunciata sul merito, quattro hanno dato luogo a una condanna della Svizzera.

Amnesty International si oppone a determinati tentativi di riformare la Corte. Perché?

Nel 2010, quando presiedeva il Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, la Svizzera ha dato il via al “processo di Interlaken” con lo scopo di riformare la Corte. Allora i casi in attesa di venir trattati erano 150'000. Era necessario agire per garantire che il sistema potesse continuare a funzionare a lungo termine. Anche se, da allora, il numero di procedure in corso è sceso a 55'000 (in gran parte grazie all’adozione da parte della Corte di nuovi metodi di lavoro), il processo di riforma non è ancora concluso. Sin dall’inizio Amnesty International ha avuto un ruolo di primo piano, contibuendo per esempio al rifiuto di proposte negative, quale ad esempio quella di ridurre le possibilità di accesso alla Corte per le vittime. Un esempio recente del nostro impegno riguarda la “dichiarazione di Copenhagen” sul futuro del sistema della Convenzione, firmata da tutti i membri del Consiglio d’Europa. La prima versione del documento sollevava numerosi problemi, come il fatto di instaurare degli scambi diretti tra i governi e i giudici della Corte. Questo avrebbe avuto quale conseguenza di minare l’indipendenza della Corte, permettendo agli Stati di fare pressione su quest’ultima affinché interpretasse la Convenzione in un determinato senso. Amnesty, con il sostegno di altre ONG, si è battuta con successo contro proposte di questo genere.