La maggior parte dei casi di violenza non viene denunciata per una moltitudine di ragioni, che vanno dagli stereotipi discriminatori legati al genere e alla mancanza di conosapevolezza delle donne dei loro diritti, alle pressioni sociali e famigliari che le inducono al silenzio, alle leggi discriminatorie e alla dipendenza economica delle donne stesse.
Perfino quando riescono a superare tali ostacoli e si rivolgono alle istituzioni, le donne si scontrano spesso con reazioni sprezzanti e offensive da parte dei loro interlocutori, i quali non trasmettono le denunce ai tribunali. Dinanzi a questi, le procedure giudiziarie per ottenere il divorzio sono costose e lunghe. Coloro le quali riescono a ottenere il divorzio si trovano spesso confrontate alla non applicazione delle decisioni giudiziarie in materia di alimenti o di minori.
Nel corso delle ultime settimane, in occasione di una missione di Amnesty International in Egitto, ho incontrato donne e ragazze che sono state aggredite dal marito o dai loro famigliari. Molte soffrono in silenzio per anni a causa delle violenze, percosse, degl'insulti e degli atti di brutalità.
Om Ahmed mi ha raccontato che suo marito aveva cominciato a bere e a picchiarla dopo tre anni di matrimonio. Una volta, suo marito le ha rotto sulla faccia una bottiglia di vetro piena, rompendole i denti anteriori. Lei è rimasta insieme a lui per anni, in parte perché non aveva dove andare, in parte perché non voleva attirare la «vergogna» sulla propria famiglia. Non ha mai preso in considerazione di rivolgersi alla polizia, speigando, rassegnata che «I poliziotti se ne infischiano. Per loro non è un problema se un marito picchia la moglie. Se sei povera, fanno come se non esistessi nemmeno.»
Le vie legali sono adite raramente
Gli uomini musulmani egiziani hanno la facoltà di divorziare dalle mogli in modo unilaterale e senza addurre nessun motivo. Le egiziane, invece, debbono rivolgersi a un tribunale e provare il «torto» provocato loro dal matrimonio. Per far costatare le lesioni corporali, debbono presentare prove come referti medici o testimonianze oculari, nel quadro di procedure fastidiose e costose.
Om Mohamed, 24 anni, ha riferito a Amnesty International: «Siamo separati da più di quattro anni e io non sonopiù sposata, né già divorziata. Per tutto questo tempo, mi sono sforzata di provare dinazi al tribunale che mio marito aveva l'abitudine di colpirmi con tutto ciò che gli capitava sotto mano, cinture e cavi compresi. Ogni volta che mi sono recata al tribunale, l’udienza è stata rinviata e bisognava produrre nuovi documenti. Ho speso molti soldi per gli avvocati senza ottenere nulla».
In tutto l'Egitto esistono soltanto nove centri di accoglienza ufficiali, sprovvisti di risorse e bisognosi di rinforzi. La maggior parte delle vittime di violenza domestica ignora completamente la loro esistenza. L’idea di questi centri d'accoglienza non è ancora del tutto accettata, in ragione della riprovazione nei confronti delle donne che vivono fuori dalla famiglia o del domicilio coniugale.
In maggio, le autorità egiziane hanno annunciato la formazione di un'unità speciale della polizia, composta di donne, per contrastare le violenze sessuali. Tale iniziativa va nella giusta direzione ma le autorità debbono fare ben altro per prevenire e sanzionare la violenza di genere. Debbono altresì modificare la legge onde garantire che le vittime beneficino di aiuti effettivi. Debbono inoltre dar prova di volontà politica e operare contro la cultura dell'omertà e la complicità dei responsabili dell'applicazione delle leggi.