Due componenti delle Pussy Riot hanno viaggiato in incognito in attraverso l’Europa e gli Stati Uniti per parlare della vicenda delle loro due compagne incarcerate. Le due donne parlano della loro identità di artiste, dei rischi del loro lavoro e dell’eco mediatica che la loro performance ha suscitato.
Amnesty: ma chi sono esattamente le Pussy Riot?
Pussy Riot: Molti pensano che siamo un gruppo punk, ma si tratta di un grosso malinteso. Siamo delle artiste mediatiche! Naturalmente la musica è importante per noi ma è solo un elemento della nostra arte. Non facciamo concerti nel senso tradizionale del termine, realizziamo performance che sono filmate per poi essere diffuse via internet. Questi spettacoli sono sempre sorprendenti, sempre illegali e sempre politici. Vogliamo veramente smuovere le cose.
Quante sono le componenti del gruppo?
Cambia costantemente perché non vogliamo essere un gruppo chiuso. In questo momento siamo otto.
Cosa sono quegli strani cappelli che indossate?
Servono prima di tutto a proteggere la nostra identità. Quando abbiamo fondato le Pussy Riot conoscevamo le regole del gioco: il fatto che chi fa arte tinteggiata di politica in Russia entra in un gioco molto difficile. Ma i nostri passamontagna hanno anche un messaggio politico.
E quale sarebbe?
In Russia i passamontagna sono il simbolo dell’OMON, un’unità speciale della polizia russa. Questa unità è tristemente nota perché reprime le manifestazioni in modo particolarmente brutale. I poliziotti indossano il passamontagna nero. I nostri passamontagna sono di colori vivaci e felici. Così ci appropriamo di un simbolo della dominazione e lo distruggiamo nello stesso tempo.
Il gruppo ha una leader? Dal processo contro le Pussy Riot le tre ragazze condannate sono diventate le vostre portavoce.
Sì, ma sono tutte cavolate. Nadi, Katia e Maria non sono le nostre portavoce, anche se i media le citano come tali. Nel nostro gruppo non esiste gerarchia.
Vi definite come artiste sovversive. Ma non siete contemporaneamente diventate delle icone della cultura di massa?
È vero. Ovunque nel mondo la gente imita o cita la nostra iconografia: i collant di colori fosforescenti, i passamontagna. Ma solo pochi capiscono il loro vero significato. L’arte contemporanea è sempre stata confrontata con questo problema. Prendete ad esempio il poeta Gogol: quando era in vita ha avuto un successo enorme in Russia, ma lui si sentiva incompreso dai suoi lettori.
Le vostre compagne militanti Nadia e Maria sono ancora in carcere. Qual’è la situazione nei campi di detenzione?
Pessima, come in tutte le prigioni russe. Nadia e Maria sono tenute separate, in due penitenziari diversi. Tutto è pensato per privare le detenute di qualsiasi forma di libertà personale. Se una donna infrange una regola del campo viene punita tutta la baracca. La notte dormono in letti a castello, in spazi molto limitati. E durante il giorno devono fare tutto insieme: mangiare, lavarsi, camminare. E lavorare, naturalmente.
Le donne sono costrette ai lavori forzati?
Si, si cerca di rieducarle attraverso il lavoro. Nadia e Maria devono cucire uniformi. Un’umiliazione supplementare: fabbricano i vestiti di coloro che le hanno arrestate.
Maria e Nadia sono delle giovani mamme. Hanno il diritto di vedere i loro figli?
Quando Nadia era ancora in stato di fermo ha potuto vedere brevemente sua figlia. Un vetro le separava. Da allora ogni tanto i bambini sono potuti andare nei campi per delle brevi visite. Per loro è estremamente difficile essere separati dalle loro mamme. E dire che il codice penale russo prevede che le madri inizino a scontare la pena solo a partire dal momento che i loro figli hanno compiuto i 14 anni.
La maggior parte dei russi si dichiarano favorevoli alle pene severe pronunciate contro Pussy Riot. Come lo spiegate?
La gente è letteralmente spinta dai media. La televisione russa ci è andata giù pesante nel descriverci. E si sono anche diffuse leggende sul nostro conto: ci sono dei russi che credono che abbiamo sollevato le nostre gonne nella Cattedrale. Altri credono che abbiamo danzato nude sull’altare. L’ambiente ostile nei nostri confronti è stato creato ad arte grazie a questi pettegolezzi.
Ma potete capire che i sentimenti religiosi di molte persone possono essere stati feriti…
Certo, e quindi suscitare il rigetto era scontato. Molti simpatizzanti dell’opposizione che simpatizzavano con noi hanno preso le distanze dopo la nostra azione. Abbiamo scelto di occupare la cattedrale proprio in un momento in cui non era in corso una messa e c’erano solo pochi credenti. E poi questo luogo non è particolarmente sacro!
Cosa intendete dire?
La cattedrale è un luogo di ipocrisia. Perché nello stesso edificio non c’è solo lo spazio sacro, ma anche sale per banchetti che possono essere affittate. In alto si prega mentre in basso si fa festa, con musica, danze e donne mezze nude. Non è una vera chiesa, è un supermercato.
Ciononostante la Cattedrale è al centro della vita religiosa russa. Le vostre proteste non avrebbero potuto essere inscenate altrove?
No, certo che no! Nessun altro luogo ha una tale dimensione simbolica. La nostra performance era scioccante ma ha costretto la gente a riflettere e l’ha strappata dalla loro apatia. Vogliamo che sia chiaro: non prendiamo di mira la religione o i credenti. Vogliamo solo sottolineare il pericolo della prossimità tra la Chiesa e lo Stato che si è creata nel nostro paese. La Chiesa ortodossa non è più autonoma, è diventata uno strumento nelle mani del potere. È uno strumento attraverso il quale i dirigenti manipolano la mente della popolazione.
Il verdetto ha cambiato il vostro lavoro artistico?
Abbiamo sempre saputo che in Russia la militanza politica è pericolosa. Il verdetto quindi non ha rimesso in causa il nostro modo di lavorare. Ma qualcosa è radicalmente cambiato: ora abbiamo anche la responsabilità delle nostre amiche detenute nei campi di lavoro. Ogni passo che facciamo dobbiamo pensare alle conseguenze che potrebbero subire.