La scrittrice cilena Isabel Allende ricorda il golpe militare dell’11 settembre 1973, come cambiò la sua vita e il suo paese per sempre. L’intervista originale è stata fatta nel 2007 da Amnesty International Danimarca, ma il testo è stato aggiornato in occasione del 40esimo d’accordo con la Signora Allende.
Quali sono stati i primi segnali del fatto che Augusto Pinochet stava inscenando un golpe militare contro Salvador Allende?
Da qualche tempo tra la gente si diceva che qualcosa poteva succedere, ma si trattava di voci alle quali nessuno credeva veramente. Salvador Allende però era convinto che la minaccia fosse reale e che dietro tutto ci fosse la CIA americana. Il Cile aveva una lunga e solida tradizione di democrazia, l’idea di un intervento militare era quasi impensabile e quindi i timori di Allende sembravano esagerati. Certamente nessuno pensava che Augusto Pinochet sarebbe diventato un traditore. Le prime notizie sul coinvolgimento di Pinochet arrivarono l’11 settembre.
Pablo Neruda era il simbolo dell’opposizione, il suo funerale segnò a prima protesta contro il colpo di Stato militare. Come ricorda quel giorno?
La morte di Pablo Neruda [il 23 settembre 1973], che avrebbe meritato una giornata di lutto nazionale, fu ignorata dalla dittature. La sua casa sulla Isla Negra era stata perquisita dai militari, mentre le forze di sicurezza fecero irruzione nella sua casa di Santiago durante la veglia. Si sparse la voce del suo funerale e la gente iniziò a riunirsi per accompagnare il feretro al cimitero.
Sapevamo che era pericoloso. Il governo militare cercò di assicurarsi che non ci fossero dimostrazioni politiche durante la cerimonia. Ma a meno di sparare a tutti era impossibile impedire alla gente di recitare le poesie più rivoluzionarie di Neruda o inneggiare canti o slogan di protesta, come le canzoni di Victor Jara, che era stato torturato e ucciso nello Stadio nazionale alcuni giorni prima.
Camminammo per diversi isolati fino alla tomba in cui la bara di Neruda sarebbe stata messa temporaneamente. Il suo desiderio era di essere sepolto nella sua casa alla Isla Negra, con la vista sull’Oceano Pacifico, nel luogo che amava di più al mondo. All’inizio eravamo in pochi e avevamo paura dei soldati, ma mentre camminavamo sempre più persone si univano a noi, e ci sentivamo più forti. L’umore della folla cambiò. Qualcuno iniziò a cantare, qualcuno urlò il nome di Neruda, poi di Allende e Jara…. L’emozione e la paura erano palpabili. I soldati erano ansiosi, nervosi: non sapevano che fare. Vedevo le loro dita sui grilletti, le loro mascelle in tensione. Era una bellissima giornata primaverile e mentre ci avvicinavamo al cimitero tantissime persone ci raggiunsero dalle strade laterali, chi piangeva, chi cantava, chi si abbracciava.
Quel giorno seppellimmo non solo il poeta, seppellimmo anche Allende, Jara e centinaia di vittime. Seppellimmo la nostra democrazia, seppellimmo la libertà.
Com’era l’atmosfera a Santiago dopo il golpe?
Coloro che sostenevano la dittatura festeggiarono la morte di Allende bevendo champagne. Giustificavano qualsiasi cosa, anche la tortura. Passarono lunghi anni prima che queste persone si rendessero conto della brutalità del regime, e iniziassero a porsi domande sulla dittatura. Alcuni hanno sostenuto Pinichet fino alla fine.
Nel 1973 e nel 1974 l’atmosfera tra le persone che frequentavo – studenti, giornalisti, intellettuali, artisti, lavoratori – era veramente cupa. Avevamo paura, eravamo quasi paralizzati dalla paura. La maggior parte delle persone non voleva finire nei guai, volevano poter andare avanti tranquillamente con la loro vita, mantenere un basso profilo. Non c’erano informazioni, solo voci. Avevamo sentito parlare dei centri di tortura, dei campi di concentramento, degli omicidi, dei raid nei quartieri poveri. Avevamo sentito di migliaia di persone arrestate e altre fuggite dal paese, ma non avevamo modo di confermare queste voci. Temevamo che i telefoni fossero sorvegliati e che molti fossero diventati informatori, quindi rimanevamo prudenti quando parlavamo, anche se con dei parenti. Alcuni di noi aiutarono i fuggitivi, era impossibile rifiutarsi di aiutare chi aveva bisogno di un posto dove nascondersi. All’inizio non ci rendevamo conto di quali sarebbero state le conseguenze.
Per un turista in visita al paese in quel momento il terrore non era visibile. Il visitatore si trovava in una città pulita, con pochissima criminalità, delle persone gentili e cortesi per strada, e avrebbe concluso che il Cile era un paese ben organizzato. Anche i bambini marciavano tranquilli, nelle loro uniformi, diretti a scuola! Il turista vedeva poliziotti ovunque e soldati in assetto da combattimento, e probabilmente sarebbe stato annoiato a casa del coprifuoco. Ma per il resto si sarebbe divertito. Io non potevo vivere in un posto del genere. Non volevo vivere nella paura e non volevo che i miei figli crescessero sotto la dittatura.
Avete subito minacce a causa dei vostri legami famigliari?
Io ero giornalista e il mio cognome mi rendeva abbastanza visibile. Ero femminista, di sinistra e una parente di Salvador Allende: tre motivi per i quali la dittatura militare mi sorvegliava. Fui licenziata da tutti i miei lavori ma non penso di essere stata in pericolo fino a inizio 1975. Ero molto infelice in Cile e con mio marito facevamo progetti per lasciare il paese. Vivevamo un momento molto difficile perché non avevamo soldi, contatti e non sapevamo dove andare. Aspettavamo, con la speranza che i militari sarebbero tornati nelle loro caserme e che sarebbe tornata la democrazia.
Ci fu un fatto specifico che vi indusse a decidere di scappare?
Durante una settimana successero varie cose che mi mandarono in panico. Scoprii che un amico incontrato di recente era in verità un agente della temuta polizia segreta. Un parente che lavorava per il governo ci fece sapere che ero su una lista nera e che presto sarebbero venuti a prendermi. Una persona che avevo tenuta nascosta in casa fu arrestata e sapevo che se avesse parlato ero spacciata. Dovevo andarmene. Così io e mio marito decidemmo che sarei partita immediatamente.
Il mio passaporto era valido. Lasciai il paese legalmente, da sola. Non era insolito: in centinaia lasciavano il paese. Andai in Venezuela e un mese dopo, quando fu chiaro che per me sarebbe stato pericoloso tornare in Cile, mio marito mi raggiunse con i nostri due figli. Ci ritrovammo a Caracas, dove restammo per 13 anni.
Oltre 3'000 persone sono state uccise in Cile e molte di più sono semplicemente sparite. La gente si rendeva conto dell’orrore che si stava consumando?
Sono sicura che la gente era cosciente di quanto stava succedendo. Io lo ero di certo, come anche tutti i miei amici. Molte persone però riuscivano a ignorare la violenza e la corruzione della dittatura, o fingevano di farlo.
Nel 2003, in occasione del 30esimo del golpe, ero in Cile. A quel punto tutte le informazioni sui massacri, le torture, le fosse comuni nascoste ecc. …, erano note a tutti, e c’erano molte cerimonie pubbliche in memoria delle vittime. Ma c’erano comunque persone che negavano i fatti.
È molto difficile vivere nella paura. Ma in caso di bisogno ci si adatta rapidamente. Negare è un modo per proteggersi. C’è una sensazione di impotenza e solitudine. Il terrore funziona proprio isolando le persone.
Così ogni famiglia è a casa, guarda la versione ufficiale delle notizie alla televisione: non c’è interazione, dibattito pubblico, dialogo o discussione: nessuno scambio di idee che possa scatenare la ribellione.
Come ha fatto Pinochet per rimanere al potere 17 anni?
La paura è uno strumento molto efficace e Pinochet sapeva come usarla. Controllava l’esercito, il settore giudiziario e non c’era un Congresso: nessuna libertà di stampa, nessun “habeas corpus”, nessun diritto alla dissidenza. Pinochet ha imposto un sistema economico che inizialmente sembrava funzionare, anche se a beneficiarne erano gli industriali mentre le maestranze erano rigidamente controllate. Il divario tra i molto ricchi e i molto poveri è ancora oggi vergognoso.
Con il passare del tempo Pinochet ha perso sostegno e alla fine l’opposizione riuscì a sconfiggerlo alle urne. Ma non dimentico che migliaia i persone hanno pianto per lui al suo funerale!
Il processo contro Pinochet non si è mai chiuso. Qual è – secondo lei – il motivo?
Pinochet era protetto dalla Legge di amnistia che aveva creato lui stesso, dal suo statuto di senatore a vita, dai suoi legami e, soprattutto, dall’esercito. Credo che non volevano veramente che Pinochet venisse processato, per questo hanno rinviato tutto per lasciargli il tempo di morire in pace, nel suo letto.
Qual’era il suo rapporto con Salvador Allende, cosa pensa del suo lavoro come politico e delle sue idee?
Salvador Allende era il cugino di mio padre. Quindi, in Cile, sono sua nipote. Mio padre lasciò mia madre quando ero così giovane che non ho alcun ricordo di lui, ma Salvador Allende rimase in contatto con mia madre. Ogni tanto facevamo dei pic-nic o andavamo al mare, ci vedevamo per i compleanni o durante le ferie.
Salvador Allende aveva un sogno: trasformare il Cile in un paese dove regnano giustizia e uguaglianza. Voleva attuare importanti riforme, una rivoluzione pacifica e democratica. Era molto avanti rispetto alla sua epoca. Negli anni ’70 il mondo era diviso dalla Guerra Fredda, e gli Stati Uniti erano determinati ad evitare che altri paesi latino americani seguissero l’esempio di Cuba. La CIA è intervenuta fin da subito per rovesciare il governo Allende. I partiti di destra erano pronti a distruggere il paese se quello fosse stato il prezzo da pagare per eliminare il sogno socialista di Allende.
Le ferite del Cile guariranno?
Sì, tutte le ferite si rimarginano con il tempo. Dal golpe sono passati quarant’anni e presto Pinochet sarà solo un nome usato nelle storie della buonanotte per spaventare i bambini.