Oggi, milioni di persone nel mondo conoscono il nome di mio marito, Raif Badawi. Questa attenzione è confortante, ma il motivo che l’ha generata mi sconvolge.
Raif è stato arrestato nel nostro paese, l’Arabia Saudita, esattamente tre anni fa, il 17 giugno 2012, solo per aver espresso le sue idee. Si è messo alla tastiera e ha iniziato a scrivere sul suo sito internet.
Raif è una persona che ama la vita e adora la libertà ed è per questo che ha ricevuto la più atroce delle sentenze. In carcere dal 2012, è stato condannato a 10 anni di carcere e ha già subito, in pubblico, 50 delle 1000 frustate che, con un atto di incredibile crudeltà, gli sono state inflitte: troppo da sopportare, per qualsiasi persona al mondo.
Dopo che [il 6 giugno 2015] la Corte suprema dell’Arabia Saudita ha confermato la condanna, senza possibilità di appello, Raif ha di fronte a sé ancora 19 sessioni di frustate, nonostante le sue cattive condizioni di salute. Tutto questo perché ha osato esprimere se stesso.
Dopo che ci siamo sposati, nel 2002, la nostra vita insieme era meravigliosa, libera e priva di preoccupazioni. Poi, alcuni anni dopo, Raif ha deciso di lanciare il suo primo sito, Liberali sauditi.
Da allora, ho iniziato a temere per lui. So fin troppo bene che le istituzioni religiose in Arabia Saudita sono potenti, feroci e brutali. Il timore si è concretizzato nel 2007, quando Raif è stato convocato formalmente per la prima volta dai servizi di sicurezza. Da allora, le cose si sono fatte difficili e sono peggiorate dopo l’arresto del 2012 e la sentenza dell’anno scorso.
Con profondo rincrescimento, sono costretta a dire che la durissima e disumana sentenza contro Raif è un monito nei confronti di tutti coloro che osano sfidare l’estremismo religioso saudita. È stata uno shock da cui non riesco a riprendermi. Siamo piombati nell’inferno di una tortura insopportabile.
Raif è sempre stato tutto per me e per i bambini. È il padre di tre angeli e un grande marito. Non riuscirò mai a dire quanto ci manca. Da quando l’hanno imprigionato, abbiamo perso praticamente ogni cosa.
Il giorno in cui Raif è stato portato in carcere ho deciso che avrei avuto due scelte davanti a me: essere debole, arrendermi e mettermi a piangere in un angolo o essere forte e combattere per la sua libertà. Sono una persona che ha sempre nutrito grandi speranze, nonostante gli ostacoli.
Ho passato giorni duri ma i primi che ho trascorso in Canada sono stati ancora più duri: una nuova lingua, nuove persone e una nuova vita. Soprattutto, la lunga distanza tra me e Raif e il pensiero che non avrei più potuto tornare in Arabia Saudita. Ma in Quebec ho trovato persone sincere a tal punto da farmi pensare che avremmo dovuto trasferirci qui, con Raif, molto tempo prima.
La mia vita in Canada può essere descritta come grande e perfetta. Il modo in cui la gente qui ci tratta è più che superbo. Il governo del Quebec e l’opposizione ci danno molto appoggio, sono magnifici tutti quanti. L’unica cosa che mi manca è che Raif non sia con me.
Le persone, in Canada come in ogni altra parte del mondo sostengono molto me e Raif, grazie soprattutto all’azione degli attivisti di Amnesty International, che non risparmiano alcun impegno per aiutarci. Tutte le parole del mondo non basteranno mai per ringraziarli tutti per quanto stanno facendo per liberare Raif. Ultimamente, hanno organizzato un tour per portare me e il mio messaggio in vari paesi europei, dove ho incontrato diversi leader. Mi hanno accolto come se fossi una politica o una diplomatica e ciò mi ha dato ottimismo e tanta speranza. Ognuno prova a fare qualcosa e spero che un giorno tutto questo darà i suoi frutti.
Ho chiesto e continuo a chiedere a sua maestà re Salman di graziare Raif e porre fine alle frustate.
È vero, non ho ricevuto alcuna risposta per il momento ma resto ottimista e continuerò a pregarlo fino all’ultimo momento utile.