20 anni fa Taplur Char, sull’isola di Kutubdia in Bangladesh, era una terra verde e fertile, coltivata. Oggi è sommersa dal mare. L’innalzamento delle acque ha ridotto la superficie dell’isola della metà, costringendo la popolazione a spostarsi verso l’entroterra o sul continente.  © UNHCR/Saiful Huq Omi
20 anni fa Taplur Char, sull’isola di Kutubdia in Bangladesh, era una terra verde e fertile, coltivata. Oggi è sommersa dal mare. L’innalzamento delle acque ha ridotto la superficie dell’isola della metà, costringendo la popolazione a spostarsi verso l’entroterra o sul continente. © UNHCR/Saiful Huq Omi

Cambiamenti climatici La questione dei rifugiati ambientali

Testo originale (in francese) pubblicato in Amnesty – Le magazine des droits humains, pubblicazione della Sezione svizzera di Amnesty International, n 93, giugno 2018.
Il riscaldamento globale e le degradazioni ambientali che questo causa provocano la fuga di decine di milioni di persone nel mondo. Queste però non rientrano sotto la protezione della Convenzione di Ginevra sui rifugiati. Come si può allora rispondere al loro bisogno di protezione? Il punto con Etienne Piguet, professore e specialista di questioni migratorie all’Università di Neuchâtel.

Amnesty: È possibile quantificare il numero di persone che suggono a causa dei cambiamenti climatici?

Etienne Piguet: Non è possibile identificare precisamente i “rifugiati climatici” e recensirli  poiché le migrazioni sono il risultato di molteplici fattori. Per esempio, se una persona deve fuggire dalla siccità è spesso perché le politiche non sono state adeguate per evitare la carestia. Si può comunque stimare che il degrado ambientale contribuisca direttamente o indirettamente alla fuga di decine di milioni di persone nel mondo e che il problema si aggrava con i cambiamenti climatici: innalzamento del livello del mare, cicloni più violenti, siccità, ecc. … . 

AI: Ci sono regioni più toccate di altre? Come si ripartisce il fenomeno?

EP: Gli spostamenti legati all’ambiente avvengono principalmente all’interno degli Stati e su piccole distanze. In caso di un ciclone, per esempio, le persone cercano un riparo prima di tentare di fare ritorno e ricostruire il loro villaggio. In casi più rari varcano le frontiere. Si tratta, purtroppo, di regioni e paesi tra i più svantaggiati economicamente che sono in prima linea a subire gli effetti del clima: Sud-est asiatico, Africa occidentale, Egitto e Bangladesh, etc.

AI: La problematica dei rifugiati climatici è sottovalutata dagli Stati nelle loro politiche?

EP: Si sovrastima il rischio di veder affluire le persone in fuga dalla degradazione ambientale fino ai paesi ricchi, fatto che rafforza il riflesso di chiusura. Per contro, si sottostima sicuramente il bisogno di assistenza umanitaria di cui avranno bisogno, in futuro, gli sfollati ambientali se il riscaldamento climatico non viene messo sotto controllo.

AI: Perché i migranti climatici non sono inclusi nelle politiche internazionali sui rifugiati?

EP: La definizione giuridica dei rifugiati data del 1951 e non menziona i motivi di fuga ambientali. Da allora, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati non ha mai voluto ritoccare questa definizione, per non rischiare di sminuire la protezione dei rifugiati “politici”.

AI: Come si potrebbe rimediare alle lacune attuali del diritto internazionale?

EP: Si tratta di una questione molto delicata. Ci si è resi conto che il riconoscimento di diritti a dei gruppi più vasti di popolazioni – rivendicati in buona fede dagli ambienti di difesa dei diritti umani -  ha un effetto perverso per i migranti, poiché di conseguenza gli Stati moltiplicano le misure di chiusura, con l’obiettivo di limitare l’accesso a questi diritti. In effetti è solo una volta raggiunto il territorio dello Stato di accoglienza che il migrante può chiederne la protezione. 

AI: L’ONU propone di agire a livello regionale. Una buona soluzione?

EP: Se consideriamo che la maggior parte di questi spostamenti sono interni agli Stati, dei meccanismi di solidarietà in termini di assistenza umanitaria sono la strada più promettente. Questo si iscrive in tutto il dibattito sulla responsabilità dei paesi ricchi e sulle forme di compenso da valutare. Un fondo mondiale di assistenza in caso di spostamenti a carattere ambientale potrebbe essere una via percorribile.

 

Étienne Piguet è professore all’Università di Neuchâtel. I suoi lavori si concentrano sui flussi e le politiche migratorie, gli spostamenti di rifugiati e la migrazione legata all’ambiente e ai cambiamenti climatici.